La plastica è come i diamanti, dura per sempre.
E proprio questo essere estremamente duratura, oltre che economica e duttile, è all’origine del problema, ormai sotto gli occhi di tutti. I ri uti hanno ormai invaso mari e monti.
E purtroppo, quella che non vedi è ancora più pericolosa: nel corso del tempo, tutti i ri uti che niscono nell’ambiente si degradano e, sminuzzati in frammenti in nitamente piccoli, entrano nei cicli vitali e nella catena alimentare, no ad arrivare nel tuo stomaco attraverso i cibi che, in un modo o nell’altro, ne sono zeppi.
Nel giugno 2019 uno studio australiano dell’Università di Newcastle ha evidenziato che una persona potrebbe «mediamente» ingerire no a 5 g di plastica ogni settimana.
Niente allarmi: le conseguenze sulla salute sono da chiarire
Queste micro e nanoplastiche sono talmente piccole che, per esempio, nei mari, che ne sono ricchissimi, vengono scambiati per plancton dagli organismi marini. Nutrendosi, oltre ad avvelenare se stessi (spesso muoiono per tossicità, in ammazione o denutrizione, perché lo stomaco appare pieno ma senza nutrimento), avvelenano anche noi: parte di queste microparticelle viene espulsa dall’apparato digerente del pesce, ma una parte consistente penetra nelle carni di cui ci alimentiamo, con conseguenze che gli studi stanno ancora cercando di chiarire. Con l’aiuto del biologo marino e ricercatore dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca ambientale Silvio Greco e del suo nuovo libro Plastica nel piatto ciamo luce su questo fenomeno, cercando anche di capire dove se ne trovano alte concentrazioni.
FRUTTI DI MARE
Non venendo eviscerati, i frutti di mare comportano l’assunzione della plastica residua nell’apparato digerente. Cozze, ostriche, vongole, gamberetti e scampi (e acciughe, sardine, aringhe, sgombri e merluzzi) sarebbero i più a rischio. «Analizzando il consumo umano di pesce è stato stimato, dall’Università di Ghent, che la popolazione europea possa ingerire no a 11mila frammenti di microplastiche all’anno» sostiene Greco. Un terzo della plastica degli oceani risiederebbe proprio nel Mediterraneo, secondo uno studio di Legambiente
SALE MARINO
Tutti gli studi sul sale marino da tavola mostrano che, a seconda della provenienza, esso contiene residui più o meno elevati di plastica. «I sali più inquinati al mondo - spiega Greco - sembrano quello croato (19.800 particelle/kg) e cinese (1300/kg), quelli meno inquinati quelli giapponesi, neozelandesi e iraniani (1 particella per kg)». Uno studio ha analizzato sei marchi di sale italiano, riscontrando plastiche in tutti, con concentrazione tra 22 e 594 particelle per kg. Nessun allarmismo, ma un motivo in più per limitare il sale.
MIELE E BIRRA
Due studi tedeschi hanno evidenziato la presenza di microplastiche nel miele e nella birra. Forse le particelle atmosferiche di microplastica sono trasportate dalle api, forse si tratta di residui di materiali utilizzati nel processo di produzione dei due alimenti. Il miele comunque sembra un problema relativo: nessuno ne mangia quantità tali da far scattare l’allarme. Uno studio americano del 2017 ha invece stabilito che, bevendo una birra in lattina (0,33) al giorno, puoi arrivare a ingerire mediamente 520 particelle di plastica l’anno.
OCCHIO ANCHE AL BICCHIERE
«ll maggior carico di microplastiche che pesa sul consumo umano - sostiene Greco - deriva dall’acqua. Negli Usa, una persona che beve solo acqua in bottiglia ingerisce 130mila microparticelle all’anno contro i 4000 dell’acqua del rubinetto».
La State University of New York ha analizzato nel laboratorio di Fredonia l’acqua minerale in bottiglia (259 esemplari, acquistati nei 5 continenti) di undici marche in tutto il mondo, trovando microplastiche nel 93%: una concentrazione media di 325 frammenti al litro, circa il doppio di quella del rubinetto. Un rapporto dell’IUCN (International Union for Conservation of Nature) sostiene che a riempire ambiente, pioggia e sorgenti di microplastiche sia il lavaggio in lavatrice di indumenti sintetici, magari con detersivi ricchi di microgranuli, che contribuiranno anche a garantirci un bucato impeccabile, ma peggiorano l’inquinamento.